richard estes, double self portrait

Selfie: raccontare se stessi, raccontare i luoghi

L’immagine di copertina non è, come potrebbe sembrare, una fotografia, ma il particolare di un quadro iperrealista di Richard Estes. Si intitola Double Self Portrait, è stato dipinto nel 1976 e lo potete ammirare al MOMA di New York. Con un doppio rovesciamento che trovo affascinante, l’autore si ritrae non come pittore, ma come fotografo (lo capiamo dal cavalletto) e lo fa due volte, sulla vetrata del caffè e sullo specchio sul fondo del locale. Trovo che sia un’opera interessante per diversi motivi: perché è la resa di un istante specifico e determinato (testimonia la presenza del pittore in quel luogo e in quel momento) ma anche uguale a tantissimi altri, perché contiene una narrazione (e quindi la costruzione di una finzione per raccontarsi), perché l’effetto di assoluto realismo è raggiunto attraverso il massimo dell’artificio  e perché prevede una condivisione, per quanto sia quella classica di un’opera d’arte che sta in un museo.

Last but not least, perché mi ricorda i selfie.

Selfie è stata nominata parola del 2013 dall’Oxford Dictionary, ormai lo sanno anche i sassi. Per i pochi che ne sono rimasti all’oscuro, i selfie sono gli autoscatti che si realizzano con lo smart phone e che le persone hanno piacere di condividere con i loro contatti sulle piattaforme social: centinaia, migliaia di contatti a livello globale che, nel giro di qualche retweet o condivisione su Facebook, possono diventare milioni.

Mentre gli italiani si abituano a questa nuova e strana parola e i brand si affannano a inseguire il trend per vedere cosa ne possono trarre, i media tradizionali si arrendono alla popolarità di una parola per loro nuova  e ne parlano dalle pagine delle riviste e dei giornali. L’articolo “Un autoscatto ci seppellirà, di Valeria Braghieri, pubblicato sul numero di dicembre di Style, il magazine del Giornale, ne è un buon esempio. Piacevolmente sorpresa per la scelta di dedicare addirittura la copertina ai social network, ho comprato la rivista e mi sono applicata con buona volontà alla lettura del pezzo in questione. L’entusiasmo è durato poco ed è scomparso del tutto una volta arrivata alla lettura della 21a riga, dove la giornalista scrive:

“è il fenomeno Selfie, il diario di una vita quello che va in scena con l’autoscatto rigorosamente postato su Internet. Ma ci si domanda perché. Una vita dovrebbe stare al massimo rinchiusa fra le pagine di un diario rigonfio di pagine, con la carta ingiallita dall’usura e le pieghe ingobbite dalle lacrime o rese trasparenti dai sorrisi: uno scontrino, il biglietto di un concerto, una polaroid, la lettera dalla quale non sapremmo mai separarci, un fiocchetto colorato…, il libretto degli esami all’università, la cartina di un pacchetto di sigarette del nostro primo fidanzato.” [tutti i grassetti sono opera mia]

Chi non l’ha avuto un diario? Io stessa diversi, anche se li tenevo con poca convinzione. L’ultimo non l’ho nemmeno finito. Ma andiamo oltre questa visione un po’ troppo romantica da carta ingiallita e fiori secchi fra le pagine. Prosegue la giornalista:

Senza nome


Cattivi, cattivi social network!

“Oggi chiunque immortala qualunque cosa e sente il bisogno di condividerla col mondo.”

Tralascio la chiusa moralista (che è facile immaginare) sulla perdita del pudore dell’esistenza e sulla vita privata che viene svenduta in un tweet o in uno status su Facebook.

Qual è la cosa che mi convince di meno di questo ragionamento? La premessa e cioè l’idea che il nostro autoraccontarci sui social network sia un diario. Non lo è affatto e per dei motivi molto banali, soprattutto legati ai motivi per cui si inizia a scrivere un diario e per le sue finalità.
Come prima cosa, il diario nasce per rimanere privato (o, al massimo, condivisibile con qualche amica fidata), per sfogarsi e chiarirsi le idee, per ricordarsi le cose. Il diario nasce per essere, un giorno, riletto alla luce di ciò che siamo diventati.
E poi, il diario si fonda principalmente sulla scrittura o sulla raccolta di oggetti, foto e ritagli che non hanno noi come soggetto esclusivo. Qui, invece, parliamo di una commistione inscindibile fra parole e immagini di un tipo specifico quali sono gli autoscatti (anche se l’articolo da cui sono partita mostrava tipologie diverse di foto, la maggior parte delle quali sono foto “e basta”, non certo scattate da chi le posta).

Le foto che postiamo su Instagram o su Facebook, i tweet che scriviamo, ecc., non vanno a formare un diario, ma una narrazione, di cui noi siamo i protagonisti. Il carattere principale di narrazione questi flussi lo acquistano perché sono il frutto di una scelta, come tutte le storie. In altre parole, siamo a decidere cosa dire/mostrare e cosa no. Siamo noi a decidere gli snodi narrativi di un racconto i cui protagonisti siamo noi stessi e i cui contorni vengono definiti col tempo. Chi si preoccupa del fatto che in questo modo la persona si esponga eccessivamente allo sguardo del pubblico dovrebbe considerare che non sono persone quelle che si mostrano, ma personaggi. Le persone sono gli autori della storia, fonte probabile di ispirazione per i personaggi, ma non coincidono con essi.

Difficile dire quanto questo gioco di specchi continuo fra privato e sociale alteri le nostre identità ( le rafforzi, come ha scritto in una difesa appassionata dei selfie l’attore e scrittore James Franco). Credo molto dipenda dal livello di consapevolezza con cui viviamo gli ambienti social e da quanto abbiamo presente la differenza fra ciò che siamo e ciò che mostriamo di noi.

Quanti sono i racconti possibili? La dimensione sociale di un selfie

Antonia Eriksson è una diciannovenne svedese, che dal 2012 si racconta su Instagram. La prima foto che ha postato la ritraeva in un letto d’ospedale da dove Antonia ha deciso di cominciare a raccontare la sua lotta personale contro l’anoressia (all’inizio, il suo account era più che esplicito, pur non rivelando la sua vera identità: @fightinganorexia). Selfie dopo selfie l’account è cambiato in @eatmoveimprove e lo stesso è stato per la vita di Antonia, che anche grazie al sostegno di quelli che oggi sono oltre 30.000 follower ha “trasformato” il suo personaggio, che ora è una ragazza che parla soprattutto di alimentazione sana, attività fisica bilanciata e motivazione.

selfie1
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Il tema dell’autorappresentazione per immagini incrocia in modo interessante (e ancora tutto da studiare) quello del condizionamento sociale. In questo senso, un’operazione non banale è quella di Dove, del tutto in continuità con la campagna di 10 anni fa sulla bellezza autentica. Dopo aver condotto una ricerca secondo la quale il 63% delle donne ritiene che i social media influenzino il concetto odierno di bellezza, Dove ha chiesto ad alcune adolescenti e alle loro madri di farsi dei selfie e da questi partire per ragionare insieme sul concetto di bellezza. Quello che ne è uscito è un corto presentato al Sundance e molti spunti sul concetto di standard di bellezza, identità ed empowerment femminile:

C’è ancora dell’altro: e se provassimo ad allargare ulteriormente la prospettiva, passando dalla figura allo sfondo?

Il selfie dal museo al travel

È di ieri la notizia che la Soprintendenza di Firenze ha chiesto al Ministero dei Beni Culturali di consentire i selfie nei musei cittadini.

selfie Firenze
Una scelta che si situa in modo intelligente in un contesto di cui è ormai impossibile non tener conto, anche e soprattutto se ci si occupa di promozione culturale: l’onnipresenza di device digitali come gli smartphone e la voglia crescente di condivisione di esperienze rende ormai impossibile arginare la voglia umanissima di affermare la propria presenza in un luogo e di dire al mondo “Io ero là, proprio là”. Chi non si è fatto una foto davanti al Colosseo durante una gita a Roma? La novità più interessante del fenomeno è però il fatto che il turista non si accontenta più del monumento o del paesaggio naturale o urbano: incredibile a dirsi (e confortante), il turista si vuole raccontare anche all’interno dei musei e dei luoghi d’arte. Aggirando quello che molti di noi considerano un ridicolo e anacronistico impedimento alla fotografia delle opere d’arte, si consente – grazie ai selfie – di far raccontare il museo ai suoi visitatori senza violare la legge. È ancora presto per dire se questo sarà di aiuto alla promozione delle istituzioni museali fiorentine, ma certo sarebbe interessante estendere l’esperimento a tutto il territorio nazionale e verificarne l’impatto su quel 97% di musei (!) che non ha nemmeno un sito web e che potrebbe non avere altre occasioni di raggiungere grandi quantità di possibili visitatori. [Come sempre, è d’obbligo un po’ di buonsenso: non fate come quelli che si fotografano davanti al Museo dell’Olocausto di Berlino!]

E se i selfie diventassero anche una narrazione dei territori? È quello che propone Roberta Milano con #ItalySelfie, un modo per raccontarsi raccontando allo stesso tempo il luogo dove si vive o che si sta visitando. Perché, si sa, le immagini dei luoghi più apprezzate e condivise sono quelle più “a effetto”, ma hanno il limite di non contenere quasi mai persone, come se chi vive un luogo nel momento in cui viene fotografato fosse su un’altra dimensione di realtà, come se l’immagine prodotta non fosse l’incontro fra la bellezza del luogo e lo sguardo di chi lo fotografa. Per capire le ricadute che potrebbe avere un utilizzo dei selfie in chiave di promozione turistica, basta guardare ai numeri citati anche da Roberta: 77 i milioni di foto postate su Instagram col tag #selfie, con il solito facebook a farla da padrone, col 48% delle condivisioni. Ci prova intanto la Basilicata con #BasilicataSelfie, che verrà lanciato durante la BIT (Borsa Italiana del Turismo) 2014, in partenza fra pochi giorni.

Invece di lamentarsi del decadimento morale di cui il fenomeno selfie sarebbe indice (vedi posizioni come quella della giornalista sopracitata) o di liquidarlo a “tormentone mediatico” come fa il Corriere della Sera, perché non inventarsi modalità nuove e creative di racconto del patrimonio culturale? #Museumselfie ci ha provato e il risultato è stato interessante (anche se in Italia i numeri sono stati inferiori). Sicuramente, un inizio, ma è solo sperimentando che si potranno trovare nuovi modi per

Per una volta, incredibile a dirsi, l’indicazione della strada da percorrere ci potrebbe arrivare da una Soprintendenza: perché non proviamo a percorrerla e vediamo dove ci porta?

 

LINK

Infografica su brand e selfie, postata su IQUII.com

L’articolo del 19 novembre 2013 con cui il Corriere della Sera annuncia la scelta dell’Oxford Dictionary

Il post di Roberta Milano con la proposta di usare i selfie per raccontare i territori

Sfoglia il Tumblr di #MuseumSelfie

The meanings of selfie“: James Franco difende i selfie sul New York Times

 

  2 comments

  1. Pingback: Selfie: dall'autonarrazione alla promozione del...

  2. Pingback: RAVENNA VAL BENE (PIù DI) UN SELFIE. | Officina Teodora

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